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“Cicelle”

Era un po’ di mesi che meditavo di fare un salto a Silvi. La nostalgia per il paese lontano e per i parenti ed amici che non vedevo e non sentivo da tempo (non c’era ancora, purtroppo, Face book!...) era diventata una sorta di ossessione. Decisi che sarei tornato a settembre, il mese che io preferivo perché la campagna in quel periodo era ricca di colori e di profumi. Mio padre che conosceva la mia grande sete di sapere la storia e i personaggi di Silvi Paese, mi disse che l’uomo che faceva per me era un tale soprannominato “Cicelle”, suo vecchio cliente. che amava molto i sigari. “Vall’a truvà a nome mé – mi disse – daje ‘nu sichere e vide quande se n’arcorde di cose antiche!”. Per me fu quel che si dice un invito a nozze. Un pomeriggio dissi a mia zia che mi ospitava a Silvi, di non aspettarmi per la cena perché quasi certamente avrei fatto tardi. Scesi giù verso il fosso per andare da “Cicelle”. Quel tragitto da ragazzo l’avevo fatto chi sa quante volte! Percorsi la stradina quasi sommersa dai cespugli e dai rovi de “li miricule di la fratte” e poi risalii verso la sorgente dove andavo con i miei compagni a prendere i granchi del fango che le nostre mamme ci cucinavano. L’ambiente era lo stesso di tanti anni prima: si  poteva sentire ancora lo stesso concerto fatto dal cinguettio di tanti piccoli uccelli dai nomi curiosi (“pizze ‘ncape”, “ucchie di brode”, “metta cucchjtte”…) che svolazzavano di fratta in fratta punteggiate da una miriade di bacche colorate… Arrivai sotto la gigantesca pianta di prugne che sovrastava una specie di cancello, fatto di canne, situato davanti alla “pinciare” di “Cicelle” che stava li vicino ad affilare le canne già pulite che servivano per reggere le piante di pomodori e per la vigna l’anno dopo. Era seduto su una panca che gli avevo fatto proprio io diversi anni prima. Siccome era più largo che alto, una normale sedia non riusciva a contenerlo! Alzò i suoi occhi profondi e vispi, mi vide e mi riconobbe subito. Abbozzò un gesto di saluto e prima ancora di ricevermi gridò alla moglie: “Rusiné tire lu colle a ‘nu pillastre, ca massere magne chi nù lu fije di mastre ‘Ntonje”. Rivolgendosi, poi, a me mi chiese: “ti piace ‘cchiu’ lu pillatre o lu cunije?”. Colto alla sprovvista feci spallucce. Per non sbagliare disse alla moglie: “Rusiné cuce pure ‘nu cunije”. Tirai fuori la scatola di sigari e gliela offrii, Ne trasse uno fuori, lo leccò, se lo passò sotto il naso per sentirne la fragranza e se lo accese. Giusto il tempo di sederci che la moglie pose sul tavolo una tovaglia colorata di quelle a quadri e ci portò  noci, mandorle, fichi secchi (“li cargjne”), fave e ceci e un fiasco di Montepulciano dal colore rosso rubino… Dopo il primo bicchiere “Cicelle” sollecitato dalle mie domande, iniziò a raccontare la storia della sua famiglia. Viveva ormai da due generazioni in quella campagna nonostante avesse una casetta anche al paese, nella zona di S. Rocco, detta anche “Piano d’aprile”, a quei tempi non ancora molto abitata, dove erano appartati, per lo più, “li cafùne”, i contadini, tenuti in disparte dai signorotti del Paese che non mancavano di rimarcare la differenza sociale tra di loro.  I contadini, non potendo entrare nella Chiesa madre di S. Salvatore, costruirono a loro spese, facendo grandi sacrifici, la chiesa di S. Rocco, dove ogni domenica e nei giorni di festa religiosa andava a dire Messa un prete della Foranìa di Atri. Quello era anche un momento per rincontrarsi, per fare il punto sulle coltivazioni, sui lavori dei campi, i raccolti ecc… Un’altra chiesa,  dedicata a S. Antonio di Padova costruita dai marinai, si trovata più giù, verso la Loggia. Silvi aveva anche una vivace attività…mondana. Le famiglie nobili (Pilotti, De Torres, Sorricchio ed altre) venivano da Atri per organizzare feste e balli. La Loggia era il salotto dove le signore eleganti andavano ad ammirare lo straordinario panorama avvolte in scialli colorati. Da lontano sembravano delle meravigliose e variopinte farfalle!.. Insomma a Silvi, una volta, c’era la “vita” e anche un certo benessere. Poi, con gli anni, parecchi scesero a Silvi marina, soprattutto i marinai e Silvi paese iniziò a spopolarsi, tanto che anche la sede comunale fu trasferita alla marina. Quando i marinai se ne andarono il Comune trasformò la chiesa di S. Antonio in parco pubblico!.. Tra un ricordo e l’altro venne la sera. Ci trasferimmo dentro la pinciara, dove Rusinella  aveva preparato una cena da sposalizio: maccheroni alla chitarra, pollo allo spiedo e spezzatino di coniglio cotto con olive nere e peperoncino, lonza, formaggio stagionato, frutta secca e splendidi ed enormi grappoli di uva pergola… Alla fine chiesi a “Cicelle” come facessero per curare le malattie e mantenersi in salute. Mi disse che gran parte delle malattie, quelle delle vie respiratorie e della gola in particolare, si curavano con il vino bollente e se la cosa non funzionava…’mbè la santa morte arrivava velocemente e senza troppe sofferenze… “Ma perché, gli chiesi, ti chiamano Cicelle?”. Mi disse che Angelarosa, la nonna di suo padre, era una sorta di guaritrice che veniva chiamata dalla gente per guarire dalle loro malattie, soprattutto dal mal di pancia. Quella sua trisavola prendeva un fuso (“lu fusille”)  che si usava per filare la lana, lo poneva sull’ombelico (“lu cicelle”, appunto) del malato e girandolo in quella posizione per una mezzora ripeteva continuamente “tre gire di qua, tre gire di là e lu dilore se ne va”. Se il malanno persisteva allora a risolvere la situazione ci pensava un bell’infuso di malva…

Ottavio Scianitti

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