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LU PICHIU’

A quei tempi (prima che venissi in Canada), le serate invernali a Silvi Paese le trascorrevamo nella cantina di ‘zì Vintiglie: una partita a carte con passatella; “nu mezz’e mezze” di vino e gassosa. La domenica, quando la cantina si riempiva anche di marinai era uno spettacolo con il fumo delle sigarette e dei sigari, che si poteva tagliare con il coltello, le partite a carte accanite tra urla e bestemmie di chi finiva per andare “olmo” (cioè non gli si consentiva di bere...). Era, comunque, una festa. Tra risate e… cazzotti, inevitabili quando qualcuno alzava un po’ troppo il gomito, si trascorrevano in allegria e semplicità interi pomeriggi e serate.

Gli artigiani, invece, giocavano a bocce con la cassa di birra sempre pronta. Ricordo che una sera, mentre nella cantina non ci si capiva nulla per le grida e gli strilli, ‘zì Vintiglie alzando una mano ordinò a tutti di calmarsi e di stare zitti perché stava arrivando un “buon” cliente, uno con i quattrini… Si trattava di “Currintò”, il figlio di “lu Pichiù”. Entrò e ordinò subito un “tubo”. Zi Vintiglie fece appena in tempo a porgerglielo che Currintò l’aveva già scolato. “Dammene ‘n’andre e subbite!” disse a zì Vintiglie il quale nel darglielo gli disse: “nin fa lu porche: bive ‘nu ‘ccone a la vodde!”. Curintò, invece tracannò anche quello e gli fece segno di riempirlo ancora. “Massere, disse, mi te voje di parlà e d’arcuntà di sciòreme (nonno), tatà (papà) e di me”… Esordì dicendo che la sua famiglia aveva iniziato la sua attività lavorativa alla fornace dove facevano i mattoni. A quei tempi di soldi ce n’erano pochi; c’era gente che non aveva neppure gli occhi per piangere. L’unico modo per sbarcare il lunario era arrangiarsi, giorno dopo giorno. Non c’erano medici né farmacie. Chi si sentiva male andava ad Atri dove c’era uno “spiziàle” il quale, dopo aver ascoltato con attenzione tutti i sintomi che il paziente gli denunciava, apriva l’armadietto che aveva alle spalle e prendendo un po’ di erbe secche di qua e di la, gliele metteva in un pezzo di carta: “facce lu dicotte e bivitele prime di ‘jrte a durmì!”. Era tutta lì la medicina! Non a caso l’età media di vita della gente era al di sotto dei 40 anni… Currintò ordinò l’ennesimo “tubo” e continuò il suo racconto  dicendo che proprio lì vicino c’era una donna rimasta vedova con un figlio, come zia Sofia, Maria, Filomena e “Carmilette”. Quelle donne si alzavano presto la mattina e andavano in campagna nei casolari dei vari Cassano, Martella, “Faggiarumane”, Ferretti ed altri dove lavoravano come cuoche, come sarte e facendo altri tipi di lavoretti in cambio di una pagnotta di pane… C’era una di quelle signore che aveva una gallina e se la teneva come fosse una regina, con la speranza che ogni giorno facesse un uovo così la sera per cena poteva fare “lu ciacelle” (grano ben tritato con il mortaio fino a formare una specie di farina) e cuocerlo sul fuoco del camino… che, poi, mezzo crudo e mezzo cotto, facevano scendere giù per la gola con un bicchiere di acqua misto a vino. Eppure, di fronte a tanta precarietà, non mancava mai l’allegria e la voglia di fare festa: si facevano le maggiolate con i carri tirati dai buoi su cui gruppi di giovani e ragazze cantavano e suonavano lu ‘ddù botte. Si organizzavano i balli e nelle cerimonie liete o funebri non mancava mai la banda musicale! Il prete era un bonaccione al quale, però, piaceva il vino: la gente si chiedeva, quando lo vedevano bere: “ma dova li mette tutte ‘llù vine?”.  Le donne si confezionavano delle borsette con le cannucce. I pochi soldi che avevano, però, li mettevano dentro un fazzoletto e li tenevano bene al caldo…in mezzo alle tette e quando li dovevano prendere, per pudore si giravano. Quando si andava al mare gli uomini erano in mutandoni e non potevano andare al di la del torrente Cerrano, mentre le donne, che si bagnavano con tutte le loro lunghe sottane, se ne andavano alla torre di Cerrano. Ovviamente la curiosità degli uomini, ogni tanto, li faceva sgarrare e così, “uatta-uatta”, come direbbe oggi Marino Di Marco, nascondendosi tra i cespugli che allora coprivano le dune marine, sbirciavano lo spettacolo delle donne che facevano il bagno vestite. E c’era, persino, chi sveniva per l’emozione!.. Ormai sbronzo, Currintò, ebbe il coraggio di ordinare non più un “tubo”, ma, addirittura, un mezzolitro… E fu allora che raccontò che a quei tempi, forse più di oggi, c’erano gli usurai che approfittavano dei bisogni dei più poveri: due Currintò erano addetti a ricordare continuamente ai debitori di pagare: gli si mettevano dietro le spalle e gli dicevano che dovevano pagare perché il debito saliva in modo vertiginoso per gli enormi interessi applicati dagli usurai (ancora oggi si dice di chi insiste a chiedere qualcosa: “mi t’hi messe arrete come ‘nu Pichiù!”)... C'era chi, non potendo pagare, alla fine, si toglieva la vita gettandosi nel pozzo per la vergogna, mentre le donne, talora, erano costrette a dare se stesse!...  Era l’una, la campana aveva fatto un solo rintocco, quando mettemmo Currintò, ubriaco fradicio, su una sedia e lo riportammo a casa sua… 

Ottavio Scianitti

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