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Osvaldo “lu fije di Ciulintre”
Grazie a Facebook e ai ragazzi del mio paese ho avuto la gioia e il piacere di rivivere con la fantasia alcune scene della mia fanciullezza riproposte con intelligenza e autenticità nel corso della bella rassegna “Arti e Mestieri a Castelbelfiore”: il vecchio aratro , il banchetto del calzolaio, il telaio per la tessitura, i carri e tutta la scenografia che è riuscita a ricreare antiche usanze e vecchi mestieri della Silvi d’un tempo. Per questo devo ringraziare Leone, che si chiama come suo nonno soprannominato “Ciulintre”, che mi ha tenuto costantemente informato sulla bella manifestazione. Peccato che le mie condizioni di salute (o la paura dell’aereo? ndr) non mi consentono di tornare a Silvi, altrimenti sarei stato felicissimo di essere presente! Il mio racconto di questo numero di Silvi 15 prende spunto proprio da”Arte e Mestieri a Castelbelfiore”. Era estate, forse luglio. Era la prima stagione dopo la fine della seconda guerra mondiale. C’era ancora tanta distruzione in giro e l’economia stentava a riprendersi, nonostante gli aiuti degli americani che, dopo aver bombardato le nostre città per scovare i tedeschi, con il famoso Piano Marshall iniziarono a favorire progetti di ricostruzione e offrendo ai meno abbienti i famosi “pacchi” con gli alimenti vari (farina di latte, gallette, formaggio rosa amaro ed altro che avevano la proprietà di conservarsi senza troppe attenzioni (i frigoriferi non sapevamo neppure cosa fossero…). Ebbene quel giorno di luglio del 1945 io e il padre di Leone, Osvaldo, avemmo l’autorizzazione delle nostre mamme di recarci in campagna dove si stava trebbiando il grano. Il luogo si trovava giù in fondo al Fosso del Gallo. Attraversammo, perciò, Pianacce e arrivammo, tra rovi di more gustosissime, all’aia di un cascinale chiamato Cassano, dove una vecchia e scalcinata trebbiatrice “91 Fiat”, sbuffando con fragore, ingoiava i covoni di grano per tirarne fuori il grano. Tutto era organizzato alla perfezione dagli uomini e dalle donne che partecipavano, cantando a squarciagola canzoni di paese più forte del rumore della trebbiatrice: chi portava i covoni e chi provvedeva a insaccare il grano nei sacchi. Ad una certa ora della mattinata tutti gli uomini si riunirono attorno ad un lungo tavolo per la colazione ricca e varia dove non mancavano salami, formaggi e altre specialità che i contadini avevano conservato gelosamente lontano dagli occhi, e dalle bocche dei tedeschi. “Zì Peppe di Carine” era addetto al beveraggio con il fiasco si dava da fare per riempire i bicchieri dei contadini stanchi e sudati per il grande caldo e per il faticoso lavoro. Il nostro amico Carletto, figlio del padrone del cascinale, ci condusse nella cantina di casa dove c’erano filari di botti di vino e dal soffitto pendevano prosciutti, e salami di ogni tipo. Carletto, con un salto, ne prese uno e, tastandolo, disse. “quest’è belle stagiunate. Scaisciò (il nonno) nin si n’addone. Daje, Ottà. taje ‘ssa pagnotte…”. Mangiammo da re e, ovviamente bevemmo pure. Tanto che, alla fine, ci prese un torpore be ci addormentammo favoriti dal fresco della cantina e dal giaciglio di paglia. Ad una certa ora una donna ci svegliò. Era Giannina, la mamma di Osvaldo che da quando era morto il marito andava sempre a lavorare in quel cascinale per campare lei e il figlio. La signora Giannina mi disse che mia madre Maria le aveva detto che avrei potuto dormire lì quella notte. Era una serata stupenda. Il cielo illuminato dalla luna facilitava il lavoro dei trebbiatori che tirarono avanti, sostenuti dal vino che Zì Peppe non faceva mai mancare loro e dal tavolo rimasto lì sempre imbandito. Pian piano l’aia si riempì di sacchi di grano. Era tardi, ma non avevo sonno. Tutto quel frastuono e quella scena frenetica stuzzicava la mia curiosità… Pensavo: chi sa quanta gente potrà sfamarsi con tutto quel grano, frutto dei grandi sacrifici dei contadini che l’avevano seminato, coltivato, mietuto… La mattina seguente iniziò con il canto del gallo, con i covoni ormai finiti, ci ponemmo tutti attorno alla grande tavolata per la colazione di fine trebbiatura… Nel pomeriggio Giannina, dopo averci fatto riempire due ceste di paglia di ogni ben di Dio, ci riaccompagnò a casa. Nel congedarci Zì dPeppe di Carine ci offrì l’ultimo bicchiere di vino dicendo: “v’ajute a ‘rsaje la coste!”. Poi facendomi una carezza mi disse: “dije a patrate, Scianitte, ca c’arvideme lu jurne di Sande Lijone!”… Anche se non c’ero, ho avuto l’impressione che “Arti e mestieri a Castelbelfiore” mi ha riportato a rivivere quei giorni… Bravi ragazzi!...

Ottavio Scianitti

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