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La quarantena…
QUESTO È IL TEMPO DI “STARE”
Passerà e torneremo a con-essere, a legarci all’altro…

Il nostro corpo, scrive Merleau Ponty, è veicolo del nostro essere-al-mondo, abitando lo spazio e il tempo: “il corpo è il nostro mezzo generale per avere un mondo” (Merleau-Ponty, 1945). Il mio corpo è eminentemente uno spazio espressivo che fa tutt’uno con la mia stessa esistenza. Le mie mani che assecondano l’incedere del mio parlare, la mia andatura mentre mi muovo tra gli scaffali del supermercato, la mia testa appoggiata su una mano quando sono in riflessione. Il mio corpo è espressione infinita di me stesso e come tale esso è intermediario del mio incontro con l’Altro. Quando incontro l’Altro amato o che vorrei respingere, mi sento muovere da determinate emozioni, sento il mio corpo risuonare con il corpo dell’Altro. È il fenomeno che Merelau-Ponty definisce intercorporeità: quell’immediato legame percettivo attraverso il quale noi riconosciamo gli altri esseri in quanto a noi simili, alla cui base c’è l’identificazione pratica con il corpo dell’Altro. Il mio corpo è mosso dalle emozioni che provo. Le emozioni in questo senso sono delle intenzionalità incarnate (Stanghellini e Rosfort, 2013). Mi consentono di inerire al mondo intorno, mi fanno sentire ingaggiato (il cosiddetto binomio “emozioni e engagement” come esplorato nel testo “Mondi psicopatologici” di Stanghellini, Mancini). E così, ingaggiandomi, facendomi risuonare con l’Altro, le emozioni danno un tono al mio tempo, al mio tempo vissuto. Allora nell’angoscia farò esperienza di un tempo che, arroccandosi sul passato, sembrerà isolarmi dal futuro, nell’ansia vivrò un tempo oscillante e spaventoso di sospensione, nell’amore farò esperienza di un tempo avvolgente ed abbracciante...
Ma allora, cosa ne è di questo naturale processo in questo strano tempo di quarantena? Al mio corpo è fatto divieto di avvicinarsi all’Altro, il corpo dell’Altro è un corpo che vivo come minaccioso o minacciabile da me, non sono sicuro che il contatto possa produrre il contagio. Sto allora a distanza dall’Altro. Il mio corpo e il corpo dell’Altro vivono in uno spazio perimetrale controllato e necessariamente imposto, per il bene di noi tutti. Il mio corpo risuona con quello dell’Altro nella tonalità emotiva della paura, della paura della possibilità del contagio.
E questa paura costante e di sfondo mi procura tensione e poi stanchezza, sfinimento. Così, resto a casa, solo o con i miei familiari. Ci sono io faccia a faccia con la quarantena. Faccia a faccia con il mio tempo. Che non è il tempo del coinvolgimento con il mondo, perché non si può, non è il tempo del progetto, perché non sappiamo nulla con certezza. Non è il tempo operazionalizzabile di cui abbiamo tanto bisogno, quello della scaletta quotidiana: lavoro – casa – spesa – allenamento – casa. Ci sono io, faccia a faccia con il mio tempo. È un tempo di attesa, di ansiosa attesa di un calo di contagi, un tempo di attesa di numeri. È, d’altronde, un tempo che non conosce il domani, spoglio di ogni presuntuoso potere di previsione del domani. È il tempo dell’adesso. Della mia quarantena. Della quarantena di ognuno di noi. Sono qui, resto a casa e provo a pensare, provo a creare, provo a stare.
Provo a pensare che si tratta di un momento, di un certo periodo di tempo, non so con certezza quanto durerà, ma scorrerà. E passerà. E torneremo a con-essere, a versarci nel mondo, a legarci all’Altro con il nostro corpo. E sapremo di più quanto è prezioso. Ora è il tempo di stare. Di provare a sentirci-con l’Altro nella comunanza di questo strano periodo, nella condivisione di un tempo che chiede a tutti la stessa cosa: stare. “Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra […]” Rivelazione a Giovanni (Apocalisse) 21:1.

Silvia Totaro
(Psicologa Clinica)

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